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Cuba, la terra del rattoppo (Vol. 2)

Da Santa Clara all’Havana sono più di duecento km e in molti ci hanno suggerito di cercare un coche particular che costasse meno di 10 cuc testa. Uno di questi è stato il body builder cubano Ernesto, che fuori da una discoteca di Cayo Coco ci aveva preso in simpatia e suggerito di mandare a quel paese chiunque ci avesse chiesto di più. Eppure quando davanti al mausoleo di Che Guevara ho incontrato Joel, anche se mi aveva chiesto 20 cuc a persona, ho avuto subito l’impressione che li valesse tutti.

Io, Rob e Francesco eravamo rimasti separati da Giulia e Stefania in quei due giorni. I nostri piani divergevano per circa 24 ore: loro si sarebbero trattenute una notte in più a Cayo Santa Maria, quello per cui personalmente, avevo perso totalmente la testa. Purtroppo spendemmo solo due notti in quel mini villaggio chiamato “Las Brujas” (Le Streghe). Ricordo questi piccoli alloggi sghangherati in legno affacciati sul mare, circondati da una vegetazione fitta e alta che faceva da barriera a rumori e luci dei resort di qualche maxi catena spagnola, in costruzione poco lontano dalla nostra spiaggia incontaminata. Noi ragazzi saremmo rientrati prima a L’Havana, da Carlitos, Alejandro e Diamante, tre ragazzi che avevamo conosciuto la prima sera sulla piazza Vieja.

Così ci affidammo a Joel per ricoprire quella lunga distanza e tornare verso la capitale. In un italiano più che perfetto ci intrattenne tutto il pomeriggio dopo averci fatto spendere per pranzo 13 cuc (meno di 13 euro per mangiare in 4). Avremmo mangiato maiale, per l’ennesima volta, in casa di una famiglia che viveva sul ciglio dell’autostrada.

Quando Joel però ci ha spiegato come lo cucinano, il mio compagno di viaggio, Roberto, si è un po’ risentito.

Il maiale è allevato in casa dei proprietari del ristorante, va avanti ad avanzi del giorno prima, quando viene ucciso prima di essere servito, viene conservato in condizioni decisamente poco igieniche. Insomma il contrario della carne da allevamento ipertecnologico che mangiamo a casa nostra.
Eppure quando mangiamo roba piena di conservanti ci lamentiamo lo stesso. Non ce ne va bene una: il maiale d’allevamento, il maiale nato, cresciuto e ammazzato nel retro di una botteguccia cubana.

C’e sempre qualcosa che non va, pensai.

Con Joel, ho conosciuto finalmente il primo cubano che odia il raggaeton e ascolta heavy metal (mi ha addirittura consigliato una band finlandese: i Nightwitch).

Joel ha vissuto nella Germania dell’est per 4 anni e si vede. Non è disilluso dalla “llegada” degli americani, come molti altri con cui ho parlato prima di lui. È anzi un po’ preoccupato nonostante sappia che il suo paese ha bisogno della fine dell’embargo. È stato sposato tre volte ed ha due figli. Ha cominciato la sua digressione prima sugli uragani e l’albero caduto sulla macchina del suo vicino di casa, poi sull’importanza del mese di aprile per suo padre:

“Io sono nato il 31 marzo a mezzanotte meno dieci, ma mio padre era talmente ossessionato col mese di aprile che ha chiesto alla tizia dell’ospedale di certificare che ero nato a mezzanotte e 10. Così oggi risulta che sono nato il 1 aprile, ma in realtà sono 20 minuti più vecchio! Quando nacque mia sorella, il 27 dicembre, per far fede alla sua ossessione per aprile, la chiamò Diana Abril. Quando poi è nata la mia sorella più piccola, il 9 febbraio di vent’anni dopo, era troppo vecchio per rompere ancora le palle con la sua ossessione per aprile”.

Quattro ore di guida volano quando sei con un tizio che ti fa provare l’ebbrezza di fare inversione a U sull’autostrada. Pensavo che l’Africa potesse essere il posto più disorganizzato del mondo. Cuba invece ha dimostrato di aver cuore da vendere.

Joel ci ha intrattenuti raccontandoci il suo amore per una coppia di piloti di rally napoletani che gli hanno insegnato l’italiano e infine il sesso: in particolare una lunga digressione su come il cunnilingus con una donna di colore possa assomigliare al leccare un filo di rame. Abbiamo riso dall’inizio alla fine del viaggio, quando parcheggiatosi fuori dal cancello dal nostro appartamento de L’Havana, ha tirato fuori dal portabagagli un barattolo pieno di polvere bianca sostenendo si trattasse di cocaina purissima. L’idea di aver percorso così tante miglia accompagnati da un cocainomane alla guida un po’ ti scombussola, almeno fino a quando, con la sua ennesima risata da folle, lui non apre il barattolo, ti tira addosso un po’ di quella polverina e dall’odore non puoi fai che renderti conto che si tratta solo di banale detersivo.

Siamo di nuovo all’Havana, una città distrutta dal tempo che va in pezzi muro dopo muro, crepa dopo crepa. Questo è terzo mondo.

Alejandro la nostra ultima sera a Cuba, ci porta a cena in un ristorantino di zona. Porta con sé la sua amica Diamante, una ragazzina di neanche diciotto anni con un corpo mozzafiato che per tutta la cena non fa che ripetermi all’orecchio “della tua fame mi occupo io stasera…”. Vorrebbe essere pagata per una notte di sesso illegale.
La cosa mi diverte in parte, ma mi mette anche terribilmente a disagio. Sarò costretto a fingere un mal di stomaco per evitare di essere assalito da quella furia, scatenando le risate dei miei quattro compagni di viaggio.
Carlitos ha portato due bicchieri da cocktail da casa per farci assaggiare un miscuglio al rum durante la cena e quando andiamo via, resosi conto di averli dimenticati al ristorante, invece di far finta di niente, corre indietro preoccupatissimo per andarli a recuperare.

Due bicchieri di vetro.

Qui il paese non si prende in giro: Cuba sa di essere indietro di cinquant’anni ed é coerente con la sua consapevolezza. Trovo asfissiante l’incoerenza tra l’immagine di molti paesi e la loro effettiva realtà.
Cuba è quasi fedelmente legata al suo stato di povertà e forse questo rende tale paese un posto molto più in pace con sé stesso di tanti altri.

Ana, la proprietaria della nostra ultima casa particular a L’Havana, ci ha raccontato la vita della figlia da quando vive a Miami: rate dell’auto, mutuo. “Una pena” possono partire solo due volte l’anno perché con il loro lavoro in ufficio non possono permettersi di più. La vedo stressata all’idea dello stile di vita della figlia, stile che qui sarebbe totalmente inconcepibile, dice.

Prima di riprendere il volo per Francoforte, mi si ripropone nel cervello quella sua riflessione preoccupata sul futuro della figlia, sul suo stile di vita, sullo stress e il poco tempo libero, sul rincorrere gli impegni e dedicarsi poco a sé e non posso far altro che rinvenire molte, troppe preoccupanti coincidenze con la mia quotidianità.
Quell’ultimo giorno a Cuba, tra il Capitolio e Havana Vieja, ci siamo fermati sulla porta di casa della signora Pepe. Fa pizzette a portar via dentro casa: 2 cuc, 5 pizzette. Ne ho mangiate di pizze e questa é veramente buona. Da italiano devo dirglielo; dopo averla finita entro e le faccio, a lei e i suoi ragazzi:

“Sono italiano, del paese della pizza e posso dirvi con certezza che questa è una delle più buone che ci siano.”

Non è vero chiaramente. Forse è la migliore mangiata all’estero, ma li lascio con questo sorriso e la loro esultanza da stadio, tra quelle quattro mura piene di crepe e pentole vecchie almeno quanto me. Un commento così a me non costa niente, per loro, forse, ha cambiato la giornata, la mia ultima giornata a Cuba prima di riprende il volo per tornare a casa.

Quando vengo in posti come questo penso sempre: io che a volte vorrei scappare da Roma, qui potrei starci? Trinidad è stata emblematica in questo senso e come dice lo scrittore Pino Cacucci, mi rispondo di no. C’è tanta pace e poco stress, ma comunque un’infinita povertà, tanto “regresso” al contrario del progresso. E allora mi chiedo ancora cosa cerco se non sarei capace di vivere con la semplicità di questi luoghi? Io che in fin dei conti vorrei avere una connessione internet a portata di mano, io che in fin dei conti vorrei andare al cinema ogni tanto. No, questo posto non fa per me. Come non lo era la Namibia, come non lo era l’Islanda o Parigi o tanti altri posti, ognuno per motivi diversi. Mi lamento tanto della mia quotidianità, ma in fin dei conti se tutte queste alternative non vanno bene, cosa sto cercando? Dove e qual è il mio posto nel mondo? Perché Cuba non va bene? E perché potrebbe andare bene? Disegnami una mappa del posto perfetto mettendoci tutte le cose buone di tutti i posti in cui sono stato. Cosa verrebbe fuori?

Una volta compiuti otto anni, capitarono due cose che mi avrebbero cambiato la vita: la prima fu che mia madre mi mise su un aereo per il Canada e la seconda che mio padre mi piazzò un mappamondo in stanza. Ancora oggi quando capito in casa dei miei genitori, avvicino il mio sguardo appassionato alla superficie di quel vecchio soprammobile impolverato e ne percorro le strade, i fiumi e i confini degli stati; passando dal Nord Europa allo sconosciuto Medioriente, dalle sperdute isolette Sandwich nei pressi dell’Antartide fino al Corno D’Africa che si è scollato a causa del tempo dal globo di plastica e resiste appeso per il confine labile tra Somalia ed Etiopia. Ogni volta premo su quel lembo adesivo colorato nella speranza che si rincolli, ma lui mi dà soddisfazione solo per qualche secondo, poi si stacca e ricomincia a pendere nel vuoto cosmico.

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