Argentina: Verso Sud in Solitaria
Nel 1998 la band americana Fastball raggiunse il successo con un tormentone estivo: “The Way”. Il front man Tony Scalzo buttò giù il testo della canzone dopo aver letto un trafiletto di giornale che descriveva la tragicomica scomparsa di una coppia di anziani avvenuta nel giugno 1997. Lela e Raymond Howard di Salado (Texas), nonostante l’età molto avanzata e l’Alzheimer, si erano messi in viaggio per partecipare al Pioneer Day festival presso la cittadina di Temple, si persero e non fecero mai ritorno a casa.
Il testo della canzone, disse Scalzo, è un’interpretazione romantica di quella vicenda. Descrive la coppia che abbandona tutto e parte per un viaggio senza ritorno. Anche quando l’auto li lascia a piedi, loro proseguono senza voltarsi indietro. Sospetto che il senso sia raggiungere la felicità partendo per un viaggio e perdendo il contatto con il resto del mondo, lasciandosi tutto alle spalle anche se questo potrebbe significare non tornare mai più a casa.
[…] Giunsi ad El Calafate per visitare il ghiacciaio del Perito Moreno due giorni più tardi e venni subito a contatto con una vasta comunità di backpackers. Non ci misi molto a rendermi conto che quando viaggi da solo per ostelli, in realtà non ti senti mai abbandonato. Si incontra di tutto: viaggiatori che hanno bisogno di qualche momento di intimità, altri disposti a dormire in camerate da dieci senza isolarsi mai. Gente che sta sulle sue, altra che si scambia informazioni, applicazioni utili per il telefono, destinazioni consigliate senza un attimo di tregua. Quasi tutti hanno una cosa in comune: sono in fuga dalla statica quotidianità.La prima sera mi ritrovai ad organizzare una grigliata di asado[1] con una coppia di ragazzi romani come me, un venezuelano, un israeliano, un’australiana ed una ragazza belga. Ognuno di loro mi raccontò che stava viaggiando in lungo ed in largo per il Sudamerica e per un periodo di almeno tre mesi. Per fare ciò tutti loro, indipendentemente da età o origine, avevano lasciato il proprio lavoro. Questi viaggiatori plurimensili avevano la comodità di non sottostare a tempi serrati, ma avevano enormi costrizioni di budget che li inducevano a cucinarsi spesso da soli, fermarsi in locali e campeggi angusti, sacrificare giornate intere a bordo di convenienti seppur lenti mezzi per spostarsi anche di poche centinaia di chilometri. Rispettare il budget non è mai facile. “È il prezzo (alto) da pagare per girare il mondo senza svolgere un lavoro alienante” mi ha detto Daniele, uno dei due romani.
La mia visita al ghiacciaio la passai in compagnia di una signora lettone, Nadja, che avevo conosciuto sul bus da El Calafate. Era una lavoratrice stagionale, non aveva legami sentimentali né una casa di proprietà da accudire nella lontana Riga, pertanto viaggiava ogni anno per almeno quattro o cinque mesi in libertà e sempre con astuzia e attenzione al portafoglio. Nadja è riuscita a girovagare per buona parte della Bolivia con soli 220 euro.
Ha viaggiato con una Lonely Planet dell’Argentina “presa in prestito” proprio a La Paz. L’avrebbe resa in eredità in qualche ostello prima di andar via, a favore di qualcun altro che vorrà scoprire questo gigantesco paese dopo di lei.
Mi ha spiegato che c’è infatti un curioso meccanismo di scambio internazionale tra backpackers: in ogni ostello qualcuno lascia una Guida senza proprietario fisso, presa mille km più a nord o a sud, al prossimo viaggiatore.
Arrivammo al Perito Moreno in circa un’oretta di pullman dal campeggio di El Calafate. Dal muro d’acqua liquida di Iguazu, mi ritrovai di fronte a quella barriera gelida. Persino la visita al ghiacciaio si tramutò in un’esperienza sonora. Alto più di 50 metri infatti, lentamente si frammenta davanti agli occhi, rilasciando blocchi più o meno grandi di ghiaccio nel lago Argentino sottostante. Esso appare come un pericolante edificio che scricchiola, pronto a capitombolare da un momento all’altro.
Rientrati da quella gita diedi appuntamento a Nadja alla prossima tappa, El Chalten, e presi un pullman per la leggendaria Ruta che collega la Patagonia al resto dello Stato, la 40. Non aveva molto senso infatti trattenersi oltre ad El Calafate.
Percorrendo la Ruta Nacional 40 si assapora un’imperdibile fetta di Patagonia: paesaggi desolati e privi di vegetazione, un deserto grigio, ma affascinante, scorre al lato del bus. In un’atmosfera quasi cinematografica, teschi ed ossa di ogni genere spuntano sul ciglio della strada, una via selvaggia sorvolata da minacciosi Cóndor, attraversata di tanto in tanto da qualche buffo lama argentino. Se si è abbastanza pazienti o si prova un certo fascino per le lande desolate, la Patagonia può regalare paesaggi di questa natura per migliaia di chilometri.
A bordo di quel pullman incontrai un livornese silenzioso, ma, come tutti i suoi concittadini, piuttosto simpatico: Emanuele era un ragazzo composto, stava girando il Sud America perché l’azienda per cui lavorava aveva chiuso i battenti. Si trattava di una società di scommesse che, prima di dargli un piccolo gruzzoletto come buona uscita, gli propose, in alternativa, di trasferirsi a Malta dove una filiale era ancora aperta. Lui rifiutò e con quel denaro che altri avrebbero messo sotto il materasso, imbarcò ad Amburgo su un cargo merci capitanato da un lettone. In 28 giorni avrebbe viaggiato dalla Germania a Buenos Aires passando per una decina di porti intermedi tra cui Dakar, Montevideo, Rio de Janeiro. A bordo sarebbe stato accompagnato da altri nove passeggeri improvvisati, decine di marinai filippini che passavano il tempo libero facendo karaoke e merci di ogni tipo. Una volta sceso a terra, come molti altri, Emanuele ha girato un po’ tutto il Sudamerica, con un budget ridotto, costretto a passare per supermercati dove spesso avanzano sugli scaffali solo un broccolo ed un po’ di pasta.
Amava discutere di musica e del cantante Bobo Rondelli con Clara, altra ragazza genovese incontrata per caso nel parco Los Glaciares. La intravedemmo la prima volta facendo un trekking ad El Chalten. Se ne stava seduta su una rupe fumando una sigaretta a pochi metri da un’enorme Cóndor appollaiato di fianco a lei. Quando si alzò per venirci incontro le domandammo se si fosse accorta di essere ad un palmo dal temibile predatore. Ci rispose che una volta sedutasi, aveva immaginato si trattasse solo di un altro backpacker in cerca di qualche minuto di pace. “Ho realizzato dopo fosse un grosso uccello”.
Clara aveva speso dieci mesi a Buenos Aires ad insegnare italiano in una classe di scuola elementare, ma per lei era giunto il momento di tornare a casa, a Genova, e nonostante le mancassero da morire il pesto e la focaccia, se ne sarebbe rimasta in Argentina molto volentieri qualche altro mese.
Con Emanuele, Clara, la ritrovata Nadja ed una ragazza sudtirolese di nome Kathreen, con cui avrei condiviso la stanza al mio ostello, il Condor De Los Andes, spendemmo un paio di giorni facendo hiking per oltre quaranta km, tra i laghi di Laguna Capri e Laguna de Los Tres, tra i sentieri di montagna che circondano il picco leggendario di Fitz Roy, posizionato in una sorta di zona franca, un territorio conteso tra Cile ed Argentina, una terra di nessuno se non della natura, frutto ancora oggi di una controversia irrisolta tra paesi.
L’ultima mattina ad El Chalten feci colazione con un paio di ragazzi di Sondrio. Li conobbi dopo poche battute in inglese; quasi immediatamente l’accento ci tradì e ci spinse a domandarci, come spesso accade “ma sei italiano?” Lavoravano a Francoforte per l’ESA, l’agenzia spaziale europea. Si occupavano del controllo del traffico satellitare e come me, erano in partenza per la destinazione successiva: a bordo di una jeep a noleggio si sarebbero diretti a nord, verso un parco naturale di cui nessuno ad El Chalten aveva sentito parlare, nemmeno i ragazzi della reception. Avrebbero macinato diverse centinaia di km persino su strade difficilmente praticabili. Fatto il pieno e raccolte due taniche di benzina in più per sicurezza, mi avrebbero salutato calorosamente prima di partire.
Di gente estrema ne ho conosciuta laggiù, ma quei due avventurieri solitari ne avevano di fegato da vendere.
Raggiunsi Ushuaia, la città più a sud del mondo, con un breve volo di un’ora in un mercoledì di inizio dicembre, e per quanto ammetta di non amare le città, ero stanco dei ritmi spossanti che avevo intrapreso sin lì; così decisi di concedermi un giorno di visita al villaggio della “Fin del Mundo”.
Terra piena di storia e città affascinante, Ushuaia è un importante porto commerciale oltre che turistico ed è famoso per essere il luogo in cui è avvenuto il primo tentativo di evangelizzazione degli Yamana[2] da parte di Thomas Bridges. Allo stesso tempo Ushuaia è famosa per essere la città dove furono costruiti la prigione della Fine del Mondo ed il treno per la Fine del Mondo, un mezzo su rotaie che portava i carcerati dalla prigione ai campi di lavoro, oggi divenuti Parco Nazionale. Ushuaia fu anche porto fondamentale per le leggendarie spedizioni verso il continente antartico, tra cui spicca il quadruplo tentativo del pioniere inglese Ernest Shackleton. Infine è tristemente ricordata per essere la città da cui l’armata argentina tentò, invano, di difendere la propria sovranità sulle isole Malvinas, conquistate nel 1982 dall’Inghilterra e divenute oggi le Falkland (non definitele mai Falkland chiacchierando con un argentino). Si dice che tra argentini e cileni non scorra buon sangue anche a causa di questo conflitto: i cileni appoggiarono infatti gli inglesi e questo porta le due nazioni ad avere ancora dei contrasti irrisolti. Per la città della Fine del Mondo inoltre passa l’ultimo pezzo di panamericana, la Ruta Nacional 3, la strada che attraversa la foresta più a sud del pianeta Terra.
Appurato che di cose da visitare ve n’erano in quantità, entrai nella vecchia prigione, presi un piccolo battello attraverso il canale di Beagle, dove avrei avuto l’insolita fortuna di incrociare una balena che migrava dal Pacifico verso l’Atlantico, avrei visitato l’Estancia Harberton, il ranch più a sud del globo, e la vicina isola di Martillo, un piccolo rifugio dove buffi pinguini sgambettanti vengono a depositare le uova e a nidificare.
Trovai questi luoghi pacifici e silenziosi così diversi dal caos cittadino da cui provenivo. Ricordo di non aver udito il rumore di un clacson d’automobile per quasi una settimana di fila mentre ero laggiù.
Esperienza insolita per un ragazzo di città.
Anche qui avrei condiviso la stanza d’ostello con nuovi compagni di viaggio tra cui Ben, un giovane statunitense neolaureato in botanica che aveva preso sei mesi sabbatici prima di rientrare nella sua città natale, Emporia.
Sembrava voler scappare dalla sua realtà, quel pianeggiante Kansas di cui diceva sempre “non c’è nulla, ci sono solo i bisonti. Pochi…”.
Mi si riempiva il cuore di gioia quando lo vedevo ridere con Mally in cui ci imbattemmo nello stesso ostello. Sembrava ridere come qualcuno che non lo aveva mai fatto prima. Ben, laggiù, ad Ushuaia, pareva essere alla ricerca del suo posto nel mondo.
Assieme a lui, Frane, un ragazzo croato, Mally e Tina avrei speso le mie serate a cucinare sfruttando il piccolo angolo cottura del nostro ostello, La Posta, tra risate e conversazioni improbabili.
Mally e Tina sono tra i compagni di viaggio con cui più a lungo sono rimasto in contatto. Lui nord irlandese e lei tedesca, si erano conosciuti nel modo più grezzo e romantico che abbia mai sentito, proprio in un ostello, a Brisbane in Australia.
Una sera Tina non la tratteneva proprio più, ma una volta raggiunte le toilette comuni femminili, proprio sulla porta, si imbatté in un tizio steso per terra, ubriaco, che ostacolava il passaggio. In inverno in Australia pare che alcuni senzatetto si infilino negli ostelli per andare a dormire in posti caldi, magari sul pavimento. Tina si fiondò per avvertire subito la reception, ma il tipo della hall si affacciò, guardò l’ubriacone e rise: “quello non è un barbone, è Mally!”.
Insieme, lei ed il receptionist, lo aiutarono a tornare in stanza e lo misero a letto. Il giorno dopo, a colazione, scoppiò l’amore che dura ormai da nove anni e che ha convinto il nord irlandese ad abbandonare Belfast per Amburgo.
Tra i tavoli di quello stesso piccolo edificio, avrei cenato seduto affianco a ragazzi che tornavano da alcune settimane di crociera in Antartide e ne avrei ascoltato i racconti affascinato.
Due tizi svizzeri mi raccontarono di aver viaggiato per tutto il Sud America in moto fino ad Ushuaia e di lì si sarebbero imbarcati su di una crociera per l’Antartide aspettando il momento più propizio. Mi parve subito chiaro, dopo aver scambiato due chiacchiere con loro, che non tutti i viaggiatori che ho incontrato avevano grandi limiti di budget. Il giorno seguente conobbi un altro svizzero, Thomas, un ragazzo un po’ impacciato, ma buono di cuore che confermò la mia sensazione. Attraversammo assieme il Canale di Beagle e mi raccontò di essere stato in un luogo che mi ha sempre affascinato e che spero un giorno di poter visitare: l’Isola di South Georgia, nelle Sandwich australi, uno dei territori più remoti della Terra che avevo avuto modo di studiare in una serie di suggestivi scatti di Sebastiao Salgado. Mi mostrò le sue foto di panorami extraterrestri, colonie di pinguini, leoni di mare che vivono in totale libertà, in armonia con un ambiente dove l’uomo ha raramente messo piede.
L’Antartide, le Malvine e le isole Sandwich non sono mete economiche: una crociera last minute verso questi territori costa intorno ai cinque mila dollari americani e la nave salpa solo se le condizioni metereologiche lo consentono, condizione non frequente laggiù. Ma Thomas, come i due ragazzi suoi conterranei e altri giovani israeliani che avevo incontrato in Terra del Fuoco, mi fecero capire che non solo non avevano costrizioni di budget: si trattava quasi sempre di gente che aveva lasciato il lavoro, che non aveva limiti di tempo o scadenze per rientrare e che a cosa fare del proprio futuro avrebbe potuto pensarci una volta tornata nel proprio paese.
Spesi la mia ultima notte a Baires, a casa di Mariel, la più cara amica di Sandra, una ragazza argentina che avevo conosciuto mesi prima. Lei e la sua famiglia vivevano nel quartiere di Martin Coronado, subito fuori dalla Capital Federal, in una villetta accogliente.
I suoi furono deliziosi e decisero di ospitarmi sapendo che sarei passato per di lì. Suo padre mi intrattenne tutta la sera parlandomi di Peronismo in uno spagnolo velocissimo che facevo fatica a seguire. Ricordo la moglie riprenderlo e pregarlo di parlare più lentamente, leggendo nei miei occhi lo sforzo nel tentare di stargli appresso.
Rientrai a Roma l’11 dicembre. Salendo in aereo e sedendomi al mio posto, pensai che mi era sembrato di viaggiare per oltre due mesi; in realtà la mia visita Argentina non era durata più di venti giorni.
Nadja, Emanuele, Mally, Tina, Frane, Thomas, Kathreen, hanno continuato ad inviarmi foto di località in Bolivia, Cile, Colombia per molte settimane anche dopo il mio rientro. Io ho continuato a chiedergliene sempre di più.
Da tutti quegli incontri e dai loro racconti ho appreso che ci vuole coraggio e fortunate condizioni per lasciare lavoro, famiglia e partire. Visitare il mondo senza avere la minima idea di dove sarai l’indomani, pianificare tutto giorno per giorno man mano che vai avanti con un occhio constante al portafoglio. Non basta solo il denaro, ma anche, tra gli altri, il presupposto di non aver nulla da perdere, come quella coppia della canzone dei Fastball; requisito non accessibile a tutti. In cambio conquisti uno dei tesori più preziosi e rari cui possa aspirare un uomo del ventunesimo secolo: la libertà di svincolarsi da tutte le routine, da tutte quelle identiche tazzine del caffè, ogni mattina, prima di andare a lavoro.
L’Argentina mi ha insegnato questo e molto altro sul Viaggio e sui modi di viaggiare.
Ha infine sfatato un comune preconcetto: non sono solo gli italiani ad avere bizzarre abitudini quando volano. Su tutti i velivoli di Aerolineas Argentinas su cui mi sono imbarcato, una volta atterrati, i passeggeri hanno concesso al comandante un sordo quanto sconveniente applauso. Tutti. Sempre.
[1] Piatto di carne alla brace tipico del Sud America.
[2] Tribù fuegina insediata nella zona più meridionale della Terra del Fuoco, aveva l’abitudine di non portare abiti. Charles Darwin la definì “il più rozzo esempio di essere umano”.
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Daniele Festoso
Una volta compiuti otto anni, capitarono due cose che mi avrebbero cambiato la vita: la prima fu che mia madre mi mise su un aereo per il Canada e la seconda che mio padre mi piazzò un mappamondo in stanza. Ancora oggi quando capito in casa dei miei genitori, avvicino il mio sguardo appassionato alla superficie di quel vecchio soprammobile impolverato e ne percorro le strade, i fiumi e i confini degli stati; passando dal Nord Europa allo sconosciuto Medioriente, dalle sperdute isolette Sandwich nei pressi dell’Antartide fino al Corno D’Africa che si è scollato a causa del tempo dal globo di plastica e resiste appeso per il confine labile tra Somalia ed Etiopia. Ogni volta premo su quel lembo adesivo colorato nella speranza che si rincolli, ma lui mi dà soddisfazione solo per qualche secondo, poi si stacca e ricomincia a pendere nel vuoto cosmico.