USA on the Road 9 – Antelope e Bryce, delusione e misticismo
Siamo nel cuore del continente ed i grandi parchi americani si susseguono senza soluzione di continuità. La traversata degli USA prosegue con l’Antelope ed il Bryce canyon, mentre Carlo Vitali, degno compagno di viaggio, scatta foto in quantità.
Il Gran Canyon è largo circa 25.000 metri, l’Antelope invece arriva raramente a toccare i 2,5. Più simile ad una grotta che ad un canyon vero e proprio, l’Antelope è un serpente di luci ed ombre scavato nell’arenaria rossa (sandstone).
Per arrivare all’ingresso, una sottile feritoia incisa su una modesta scarpata, occorre percorrere una manciata di chilometri nel letto asciutto di un torrente. I Navajo guidano i fuoristrada sulla pista di sabbia mentre intorno scorre il deserto dell’Arizona. Il tragitto non è comodo, per via di buche e dossi, ma abbastanza breve da poter essere definito divertente.
Giunti all’imboccatura del Canyon si intuisce subito che i Navajo hanno ceduto le armi al dio danaro. Ammassati presso l’imboccatura sostano innumerevoli fuoristrada, e le masse di turisti divise grossolanamente a gruppi, capitanate dalle guide locali ansiose di guadagnarsi una lauta mancia, si lanciano in una sorta di corsa per cercare di guadagnare qualche metro di vantaggio sugli altri. Il canyon infatti è affollato all’inverosimile, e si cammina in file indiana. Non capita mai di rimanere da soli, neanche per una frazione di secondo. Avrete sempre il tedesco col cappello da esploratore davanti a voi ed il bambino americano che rompe il cazzo alle vostre spalle.
E’ il prezzo da pagare per calarsi nei panni di un Peter Lik o un Cartier-Bresson a caccia di scatti particolari. Si perché l’Antelope Canyon è dannatamente fotogenico, e le guide sono estremamente preparate nel dare suggerimenti ed indicare le inquadrature più suggestive. Il flusso di turisti è rigidamente regolato dai Navajo che vi indicano dove accostarvi, dove scattare, quando fermarvi e quando ripartire. Il risultato di tutto questo è molto stress, un po’ di nervosismo nei confronti del tedesco che vi precede ed una sequenza impressionante di fotografie meravigliose.
Quando il sole è allo zenit, per una manciata di minuti, la luce filtra all’interno del canyon creando magici chiaroscuri tra le rocce di un rosso brillante. Le guide gettano sabbia controluce e dal nulla appaiono i fantasmi del canyon, che dopo pochi secondi e molti scatti, tornano polvere per altri millenni.
Toccate la fragile arenaria, seguite col dito il segno dell’acqua che nei secoli ha scavato la roccia creando curve morbide ed avvolgenti. Pensate all’emozione che deve aver provato la pastorella Navajo che per prima si è avventurata in questo ambiente. L’atmosfera potrebbe essere magica, se solo riusciste a rimanere da soli per un attimo. Ma questo non succederà.
Dall’Antelope si esce con un nuovo sfondo per il desktop, ma con l’amaro in bocca per non aver tentato un’escursione un po’ più “vera”. Per 45 dollari tutto sommato resta un buon affare. Se dovessi tornare però cercherei di addentrarmi nella parte bassa (Lower Antelope) che sembra un po’ più complicata da percorrere e quindi (in america questa regola vale sempre) notevolmente meno affollata.
Il Bryce canyon offre un’esperienza mistica. La strada corre sul ciglio della scarpata ed i punti panoramici sono tutti facilmente raggiungibili. A differenza del Gran Canyon però, e grazie alle dimensioni ridotte, il Bryce si può facilmente esplorare a piedi. La discesa fino alla base non richiede infatti molto tempo e costituisce un buon modo per evitare il grosso della folla.
Arrivando quasi al tramonto, mi sono avventurato nel Navajo Loop, il sentiero più spettacolare e frequentato, che richiede circa un’ora di cammino. Man mano che si scende nel canyon le ombre si allungano e la folla si dirada fino a scomparire del tutto una volta giunti sul fondo del canyon.
Si scende tra mastodontiche formazioni rocciose cui l’erosione ha dato forme maestose e vagamente inquietanti. Torri e guglie scolpite nei secoli si ergono intorno a me. Il tracciato le attraversa e la sensazione di disagio cresce man mano che le persone a fianco a me rinunciano e tornano indietro. Il sole è tramontato dietro al rim, sebbene in lontananza sia ancora possibile cogliere scorci dorati tra le rocce.
I pilastri sembrano prendere forma e consistenza, e quando all’improvviso mi ritrovo solo, sembra che mi osservino. Devo sbrigarmi, so che ci impiegherò meno di un’ora (sono molto più in forma dell’americano medio), ma mi sento inquieto, vorrei tornare indietro, per la via da cui sono sceso.
Ma questo è un loop e non se ne parla di mollare a metà.
L’immaginazione corre, i pinnacoli si fanno più vicini e sembrano rivolgermi mille domande. Sono gli antenati. I miei antenati, o quelli degli indiani che popolavano queste terre? Non fa molta differenza. Vogliono mettermi in difficoltà: osservano severi, scrutano il futuro, criticano il modo di essere. Insinuano dubbi, sussurrano.
Poi si ergono a giudici spietati e urlando condannano.
E’ un rito di iniziazione ancestrale e potente. E’ difficile tener testa agli antenati. Sono un nano in mezzo a loro.
Il sentiero serpeggia sul fondo del canyon a lungo, avanzo tra le rocce completamente solo mentre le guglie mi sovrastano e mi opprimono la mente. Il buio avanza ed i minuti sembrano ore. Mai avrei creduto di trovarmi a fronteggiare un’esperienza simile nel cuore di uno dei più famosi e frequentati parchi d’America.
Affronto un primo bivio, poi un secondo, mi tengo a sinistra, immaginando gli sciacalli che emergono dagli arbusti immobili poco più in la. Poi gradatamente il tracciato curva a monte ed inizia a salire. La suggestione mentale ha prodotto un quantitativo impressionante di adrenalina ed i miei piedi sembrano volare tra le rocce e le radici dei pini giganteschi.
Salgo rapido per una gola strettissima, le rocce continuano a urlare ma ora i muscoli scattano rapidi, non c’è più traccia di indecisione. Bisogna salire ancora, oltre quelle rocce, oltre quella strettoia.
Supero una coppia di ciccioni che arrancano sui gradini di sabbia. Sono le prime persone che incontro da mezzora. Loro sono scesi in due, non avranno incontrato le mie stesse difficoltà, non avranno subito l’aggressione dei pinnacoli. Gli sorrido e passo avanti: il panorama si apre nell’ampio anfiteatro del Sunrise point, una cascata di terra e sabbia da cui spuntano torri, archi ed altre curiose formazioni rocciose.
Rallento finalmente e mi fermo ad apprezzare lo spettacolo. Cinquanta metri più in alto una piccola folla si è radunata sul ciglio del rim per assistere al rito dell’ultimo raggio di sole. Tutti i dubbi e le incertezze sono rimaste sul fondo del canyon. Ora le guglie sembrano anziani che sorridono compiaciuti. Lentamente, guadagno anch’io il bordo del rim gustando ad ogni passo la consapevolezza di aver superato una temibile prova. Come un giovane figlio dei Navajo in questo luogo sacro ed antico.
Matteo Barni
Viaggiatore da una vita. Ho piantato la tenda sull'aspra brughiera delle Orcadi e sorseggiato mojhito sulla sabbia bianca di Bora Bora. Ho visitato il cuore rovente dell'Islanda ed attraversato gli USA da un oceano all'altro. Ho conosciuto un filosofo cubano di nome Aristoteles, e visto i Sami giocare a calcio alle tre del mattino in un'area di servizio oltre il circolo polare artico. Ho cotto gli spaghetti nel Tiergarten di berlino ed ero a Times Square la notte che Trump ha sconfitto l'america. Mi muovo a piedi in bicicletta, in treno e in automobile: ad ogni viaggio il suo mezzo. Ma meglio se leggero. Sono fermamente convinto che l'Italia sia il paese turisticamente più importante del mondo, se vissuto fuori stagione. Tuttavia amo trascorrere l'estate al fresco nel Grande Nord. Cicloturista enogastronomico dell'era Decathlon, mi considero più un cacciatore di paesaggi che un Trekker vero e proprio. Ho comunque al mio attivo un 4000 e numerose cime minori. Ho viaggiato con tre, cinque, dieci amici, alcuni dei quali scrivono in questo blog. Oggi viaggio con mia moglie che scatta fotografie e traccia la rotta col GPS, ma non rinuncio mai alla sensazione del dito che scorre su una carta geografica. Mio figlio a 6 mesi ha già raggiunto quota 2.400 e calcato alcune delle spiagge più belle del mediterraneo. Sta buono solo in viaggio. Credo che farà grandi cose.