USA on the Road 6 – Altipiani, Rockies e Parchi nascosti in Colorado
Lungo la strada che dal Texas conduce in Colorado il paesaggio si fa progressivamente più brullo mentre impercettibilmente si sale di quota. Dopo alcune ore di guida decidiamo di aprire il finestrino e ci accorgiamo che si può tranquillamente spegnere il condizionatore.
La temperatura all’ora di pranzo si aggira sui venticinque gradi e l’altimetro segna ormai quasi duemila metri.
Delle montagne Rocciose però ancora non c’è traccia.
Con lo scorrere delle miglia, sempre con estrema lentezza, il territorio inizia e diventare un po’ più mosso, ed appaiono le prime colline dal profilo dolce e spoglio. La prateria le ammanta completamente nella quasi totale assenza di presenza umana. E’ un paesaggio che ricorda vagamente l’Irlanda e la Scozia. Anche per via della variabilità del tempo che alterna violenti acquazzoni a parziali schiarite.
All’improvviso appaiono finalmente le Rockie Mountains ed è un’enorme delusione. Si tratta di montagne finte. Le mappe indicano intorno a noi picchi ben oltre i tremila metri d’altitudine, ma il paesaggio che ci si para davanti è più simile alla valle dell’Aniene che alle grandi vette alpine. Le montagne non sono ripide ed i boschi di pini le ricoprono fino alla cima donando loro un’aspetto estremamente banale. Niente roccia, niente verdi alpeggi, niente pareti incombenti.
La principale causa di questo “effetto appennino” è data dal fatto che la catena montuosa si erge su un altopiano a circa duemila metri d’altitudine. Una montagna di tremila metri non fa quindi una grande impressione, è un bozzo appena pronunciato rispetto al territorio che la circonda. In Europa siamo abituati a vedere le montagne da una base posta solitamente a 600-1000 metri d’altezza. L’imponenza ed il colpo d’occhio di una montagna dipendono proprio dalla differenza di altitudine che corre tra l’osservatore e la cima. In geografia il concetto si chiama “Prominenza” e di solito se una montagna ha un’elevata “prominenza” è anche esteticamente bella da vedere.
Qualche esempio? Il Monte Bianco, 4810m di altezza, si osserva da Courmayeur che è a 1200m di altitudine. Il turista si trova davanti un muro di roccia e ghiaccio di 3600 metri. Il Gran Sasso, assai più modesto, arriva solo a 2914 metri ma praticamente si vede dal livello del mare. Anche in questo caso il dislivello osservabile supera abbondantemente i duemila metri. Guardare una montagna alta 3000 metri da un’altopiano posto mille metri più in basso è assai meno impressionante.
Anche la vegetazione ed i colori fanno la loro parte. Manca il verde dei pascoli d’alta quota e le pareti verticali di roccia. Soprattutto manca il bianco della neve. Le Rockies infatti pur superando sovente i 4000 metri d’altezza non hanno ghiacciai, perché mediamente il clima qui è un po’ più caldo che in Italia.
Persino i passi di montagna sono ridicoli. L’autostrada sale per una decina di minuti con pendenze proibitive (lor signori NON costruiscono gallerie) poi ci si trova in un bosco dove un cartello strappalacrime celebra la costruzione della strada come un grande trionfo dell’uomo sulla natura. Ma fatevi un giro sul Pordoi e poi ne riparliamo. Forse basterebbe anche la Cervara – Subiaco per dar loro l’idea di cosa sia una strada di montagna.
Alla fine sembra un po’ un furto. Mi sono sentito come se mi avessero rubato le montagne.
Nella sperduta cittadina di Alamosa, il nostro gruppo si arricchisce di due nuovi elementi: Carlo, detto “il Colonnello”, dalle comprovate capacità atletiche nonché esperto di sistemi tecnologici primitivi e Cecilia, specialista di relazioni in contesti culturali avversi (anche nota per aver percorso il Ponte di Brooklin nella sua interezza in pieno inverno con le Birkenstock ai piedi).
Per giungere ad Alamosa hanno vissuto un’esperienza da terzo mondo che ben descrive a mio modo di vedere il reale stato della rete di trasporti pubblici americana al di fuori delle grandi metropoli. Atterrati all’aeroporto di Denver, si imbarcano su un pullmann di linea per Alamosa tra ritardi, caos e malintesi vari. A metà strada l’autista ha la bella idea di fermarsi per una sosta: non mi è chiaro se la sosta sia stata espressamente chiesta da gente che doveva far pipì, oppure fosse prevista fin dall’inizio.
Fatto sta che il genio si va a impantanare nella piazzola di sosta invasa dal fango ed il pullmann rimane bloccato. Figurarsi, pensa Cecilia, se adesso non esce fuori qualche Rambo yankee a risolvere la situazione.
Imbelli, gli americani si scoprono incapaci di prendere l’iniziativa. A questo punto il Colonnello stacca due travi di legno da una staccionata e costruisce la rampa di uscita per il torpedone che in pochi minuti è fuori dal pantano. Cecilia finisce il suo caffè e si ritiene soddisfatta dell’intervento.
Quindi ricapitolando: i treni sono inesistenti e i bus di linea risultano sostanzialmente allineati a quelli del Marocco. Questa è la prima potenza mondiale: un paese pensato e tarato per vivere in automobile.
Meglio ancora un SUV, considerando la qualità delle piazzole di sosta.
Adagiato su un altopiano a 2500m d’altezza a ridosso delle Sangre de Cristo Mountain, il Great Sand Dunes National Park offre un colpo d’occhio davvero peculiare. Da molti miglia di distanza si iniziano a scorgere le dune di sabbia e man mano che ci si avvicina irrompe prepotentemente alla vista il contrasto netto tra la sabbia dorata ed il verde brillante della prateria che luccica dopo un tanto violento, quanto frequente, acquazzone estivo. La distesa sabbiosa è chiusa ad est da ripidi pendii coperti da boschi, sovrastati dalle cime delle montagne che solo a tratti emergono dai fitti banchi di nuvole.
Il costo del parco è risibile. Sono tre dollari ad automobile, a meno che non abbiate il convenientissimo pass annuale “America the Beauty”. In tal caso è gratis.
Le strutture all’interno sono spartane ma eccezionalmente pulite ed efficienti. C’è un invitante campeggio, il Pynon Flat, in posizione invidiabile di fronte alle dune. Sebbene il campeggio non disponga praticamente di alcun tipo di servizio, costituisce l’unico modo per dormire all’interno del parco ed apprezzare l’alba del deserto. Il tutto a un prezzo irrisorio (20 dollari per la piazzola).
Disgraziatamente non abbiamo avuto la possibilità di campeggiare in quanto la sera del nostro arrivo pioveva e la temperatura si aggirava sui 10 gradi centigradi. Abbiamo quindi deciso di ripiegare su un banale Motel nella vicina, ma non troppo, città di Alamosa.
Al parcheggio del parco ci sono bagni, acqua per la doccia, e distributori di bibite. Il tutto molto nuovo e curato. Dal parcheggio si attraversa a piedi scalzi un torrente larghissimo ma praticamente in secca, oltre il quale iniziano le dune.
Al Great Sand potete:
a) noleggiare una tavola e cimentarvi con il sandboard. Esperienza sicuramente divertente ma piuttosto faticosa. Se avete la possibilità nel vostro paese di andare in snowboard con il supporto di funivie e seggiovie, sinceramente il sandboard risulta abbastanza inutile.
b) Intraprendere la scalata della Star Dune, alta “solo” 200m, rispetto al parcheggio. La salita si presenta faticosa a causa del terreno, con le difficoltà aggiuntive legate al clima che può essere terribilmente caldo o terribilmente freddo a seconda dei capricci del meteo, anche in piena estate. La vista dalla vetta della duna è magnifica. Il colpo d’occhio abbraccia l’intera zona desertica stretta tra le montagne e si perde nell’infinita prateria che si estende ad ovest.
Il consiglio è di avventurarsi tra le dune la mattina presto, magari subito dopo la pioggia, quando la sabbia bagnata ed indurita facilita notevolmente il movimento. La discesa dalle dune avviene di corsa saltando e scivolando sulla sabbia. Tendenzialmente tenete presente che per ridiscendere impiegherete circa un quinto del tempo che avete speso per salire. Non preoccupatevi troppo quindi. Per quanto sarete esausti ed assetati dopo un’ora di estenuante salita, difficilmente sarete a più di quindici minuti dalla vostra macchina.
Un’ultima annotazione sul Great Sand: è dannatamente fotogenico. Forse non è il parco più bello degli States, ma le foto rendono molto bene, anche se confrontate con i paesaggi più noti e spettacolari che si incontrano ad ovest.
Il nostro viaggio verso ovest continua tra gli altipiani e le catene montuose del Colorado. Nonostante la delusione provata al cospetto delle Rockies, le montagne rivelano qualche scorcio interessante nei pressi del Wolf Creek Pass. La strada scende e si affaccia ripida in una vallata verdeggiante costellata di laghetti ed allevamenti di bestiame. Il belvedere è sospeso a precipizio tra formazioni rocciose vertiginose e la valle in lontananza sembra uscita da un film.
Qui non devono essere cambiate molto le cose negli ultimi due secoli. Chissà se gli allevatori sono dei Mormoni che girano ancora coi carretti trainati dai cavalli? Gli scoiattoli ed uno splendido uccello esotico dal colore azzurro attraggono l’attenzione dei turisti di passaggio e si offrono in posa per i nostri obbiettivi.
Ai piedi delle montagne ormai in prossimità del confine con Utha e Arizona, sorge la cittadina ex mineraria, oggi riconvertita al turismo, di Durango. Niente più di un paio di vie piene di negozietti e caffè. Ogni tanto si sente il fischio del treno a vapore, attrazione della zona, che per una cifra esorbitante porta i turisti fino a Silverton attraverso una stretta gola. Durango è spacciata per una sorta di città del vecchio west, motivo per cui non sapevo bene se aspettarmi un set cinematografico abbandonato o una sorta di parco giochi in stile Orlando. In realtà Durango non è nessuna delle due cose. Semplicemente non c’è niente. Il cosiddetto Historical District sembra impossibile da individuare, finchè non ci rendiamo conto che ci siamo dentro e non c’è nulla che valga la pena di fotografare.
Forse l’atmosfera piacevole la rende una buona base per esplorare la zona, ma certamente non vi aspettate il saloon ed i pistoleri per strada.
In questo angolo di Colorado la vera attrattiva è rappresentata dal Mesa Verde National Park.
Il parco è costituito da un altopiano solcato da canyon all’interno dei quali gli antichi indiani Anasazi hanno costruito le loro “città” segrete. I pueblos sorgono aggrappati alle pareti verticali, in prossimità di rientranze nella roccia simili a caverne. Le case di terra e roccia sembrano apparentemente irraggiungibili ed infatti ancora oggi i ranger faticano a portare i turisti sui ripidissimi sentieri attrezzati con scale di ferro e balaustre di sicurezza. Gli Anasazi invece non disponevano di tali facilitazioni ed usavano mani e piedi come i moderni free clymber.
Dall’altopiano queste antiche costruzioni risultano invisibili ma quando ci si affaccia sul ciglio dei canyon si distinguono facilmente dalle pareti rocciose in cui sono incastonate. Le visite alle strutture più impressionanti sono guidate, prevalentemente a causa della difficoltà dei percorsi. Il che è un vero peccato perché quando sei li vorresti entrare nelle case, esplorare le microscopiche piazzette e scalare quei muri cosi antichi ed affascinanti.
La presenza dei ranger e delle torme di turisti rovina un po’ l’atmosfera dell’insieme, rendendola meno suggestiva di quanto potrebbe essere.
Non posso fare a meno di immaginare un cow boy solitario che nel corso delle sue peregrinazioni si imbatte per caso in un posto del genere, e magari decide di accamparsi e trascorrere la notte tra le misteriose abitazioni.
Alcuni pueblos sono comunque visitabili in autonomia e possono regalare un po’ di suggestione, a patto che si riesca ad essere li la mattina molto presto o al tramonto.
Regola d’oro questa, valida per tutti i parchi americani.
Complessivamente il Mesa Verde National Park regala un’ottima esperienza mista tra natura e cultura. Non dimentichiamoci infatti che siamo praticamente di fronte alle costruzioni più antiche del Nord America.
La città sotto le pareti dal Canyon Foto di C. Vitali Foto di C. Vitali Antiche civiltà nascoste all’ombra delle rocce Particolare del pueblo Particolare del pueblo
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USA on the Road, capitoli precedenti:
Matteo Barni
Viaggiatore da una vita. Ho piantato la tenda sull'aspra brughiera delle Orcadi e sorseggiato mojhito sulla sabbia bianca di Bora Bora. Ho visitato il cuore rovente dell'Islanda ed attraversato gli USA da un oceano all'altro. Ho conosciuto un filosofo cubano di nome Aristoteles, e visto i Sami giocare a calcio alle tre del mattino in un'area di servizio oltre il circolo polare artico. Ho cotto gli spaghetti nel Tiergarten di berlino ed ero a Times Square la notte che Trump ha sconfitto l'america. Mi muovo a piedi in bicicletta, in treno e in automobile: ad ogni viaggio il suo mezzo. Ma meglio se leggero. Sono fermamente convinto che l'Italia sia il paese turisticamente più importante del mondo, se vissuto fuori stagione. Tuttavia amo trascorrere l'estate al fresco nel Grande Nord. Cicloturista enogastronomico dell'era Decathlon, mi considero più un cacciatore di paesaggi che un Trekker vero e proprio. Ho comunque al mio attivo un 4000 e numerose cime minori. Ho viaggiato con tre, cinque, dieci amici, alcuni dei quali scrivono in questo blog. Oggi viaggio con mia moglie che scatta fotografie e traccia la rotta col GPS, ma non rinuncio mai alla sensazione del dito che scorre su una carta geografica. Mio figlio a 6 mesi ha già raggiunto quota 2.400 e calcato alcune delle spiagge più belle del mediterraneo. Sta buono solo in viaggio. Credo che farà grandi cose.