USA on the road – 1 Welcome to Miami
Chiariamo subito una cosa, Miami è molto meglio di quanto ci si aspetterebbe. Da bravi italiani di sinistra siamo sbarcati in città con la testa piena di stereotipi, convinti di incontrare personaggi col sigaro ed il pastrano bianco, tizi palestrati, biondone rifatte e decappottabili di lusso. Invece l’impressione che se ne ricava è tutto sommato abbastanza normale. La mitica Ocean Drive è lunga al massimo un paio di chilometri, si può girare facilmente a piedi tra la spiaggia, i locali sul lungomare e la zona pedonale commerciale. Si trova facilmente parcheggio e si ha sempre una bella sensazione di sicurezza e tranquillità. I poliziotti sono un po’ coatti con quegli occhiali da sole e le mostrine che luccicano sotto il sole tropicale, ma per il resto la città offre un volto sportivo, estremamente curato e ragionevolmente a misura d’uomo.
Ed ovviamente è straricca.
La spiaggia è ampia e pulita, molto più simile a quella di Varadero che a quella di Sabaudia. Il colore è bianchissimo in perfetto stile tropicale, l’acqua è bassa e grazie a questo l’oceano assume un piacevole effetto mare-clamo. A voler cercare il pelo nell’uovo, la temperatura del mare è leggermente troppo alta , ma presumibilmente questo aspetto diventa accattivante nelle stagioni un tantino meno afose dell’estate.
Tra la sabbia ed Ocean Drive, su cui affacciano alberghi, locali e ristoranti, c’è una fascia verde di una cinquantina di metri dove si alternano prati inglesi, palme, docce e piste per gli innumerevoli mezzi a propulsione leggera che circolano in città. E’ qui infatti che sono nati i rollerblade ed il segway, e le invenzioni sembra non si fermino mai. L’ultima trovata è un aggeggio tipo monopattino con due tavole fissate anteriormente ed un piccolo manubrio. Stando in piedi ed avvicinando ed allontanando i piedi poggiati sulle due tavole con un movimento fluido, si produce una certa propulsione. Sospetto che il tutto nasconda un effetto leva non proprio efficace, ma risulta alquanto simpatico da vedere. Un’altra diavoleria è quel jet che si vedeva tempo fa nella pubblicità della Vodafone, dove un disgraziato attaccato a un tubo viene sparato in aria in una direzione randomica per poi presumibilmente fracassarsi la spina dorsale in fase di atterraggio tra le onde. Sembra la descrizione di un episodio di Jakas, e invece quella roba esiste sul serio, e ovviamente sta a Miami. A onor del vero l’ho vista solo su un volantino ma non dubito che qualcuno si cimenti sul serio nell’impresa.
I locali su Ocean Drive fanno il loro sporco mestiere. I prezzi sono ragionevolmente bassi e l’atmosfera è piacevole in quanto si sta seduti all’aperto e la frescura è garantita da ventilatori e vapor acque al posto dell’onnipresente aria condizionata.
Immediatamente a ridosso di Ocean Drive c’è un tratto di spiaggia dominato dai grandi alberghi. I palazzoni in riva al mare non sono mai belli, ma qui trovano il loro perché. Sembrano insomma perfettamente inseriti nel loro ambiente naturale. Sono quasi aggraziati da vedere, perfetti e curati in ogni elemento. Non chiudono l’accesso al mare ed anzi realizzano ed investono in passerelle e giardini che nascono privati ma alla fine diventano pubblici. “Pubblici” ovviamente per chi si può permettere di venire qui.
La pacchianeria dilagante, l’ostentazione e l’eccesso, il sogno del lusso per la middle class, sono nati qui, e qui sono realmente compiuti. Miami è il capostipite originale di questo modello di turismo, che altrove nel mondo è stato copiato causando ingenti danni ambientali, sociali e rovinando la bellezza di ampi tratti di costa. Quello che altrove appare all’osservatore sensibile come uno scempio qui è quasi accettabile. Non si fatica a comprendere perché il resto del mondo cerchi di copiare il modello turistico di Miami. Il fascino è palpabile, persino per noi amanti della natura e della tranquillità. Ma c’è una differenza fondamentale con il resto del mondo. I soldi. Qui ce ne sono abbastanza per costruire, mantenere e curare, mentre altrove si costruisce in grande, cercando di scimmiottare l’originale, ma per offrirlo a prezzi da terzo mondo. Molti dollari scorrono nel sangue della Miami kitsch e lussuosa, mantenendola giovane. Altrove ben presto rimane solo il cemento e lo scempio ambientale.
Ma non tutto a Miami è ricco e curato. Spinti da un desiderio di mia moglie Chicca (io lo sapevo che sarei rimasto deluso) e da una descrizione accattivante della guida, abbiamo fatto un giro nel quartiere di Little Havana.
Dire che non ha niente a che fare con la città cubana è già di per se una figura retorica. Ma una di quelle figure retoriche pesanti, da primo liceo.
Little Havana è terribilmente squallida e smorta. In giro c’è poca gente, le facce non sono affatto allegre e nell’aria non c’è traccia di musica. Più che ristoranti cubani quelli che si incontrano sono fast food col menù in spagnolo, per il resto si vedono solo discariche di automobili, gommisti e una montagna di armerie. E’ triste, ma sembra davvero che l’unica libertà che gli esuli cubani abbiano conquistato venendo in America sia quella di comprarsi una pistola.
A proposito di pistole, pare che l’ultima attrazione di Miami sia il poligono di tiro. E’ trattato alla stregua di un parco divertimenti e pubblicizzano sui volantini la possibilità di sparare con la mitragliatrice. Quella grossa, col cavalletto. Pare che il bersaglio più gettonato fino a poco tempo fa fosse Bin Laden. Sinceramente non ho verificato.
Altri due appunti su Miami.
Guidare è Miami è una trappola. L’intera città è percorsa da autostrade dove tutti si muovono alla stessa velocità (un paio di miglia sopra il limite) occupando tutte le corsie (che di solito sono 3 o 4). Detto cosi sembrerebbe un traffico ordinato, ma per il turista fresco di noleggio che desidera solo starsene tranquillo sulla destra senza essere fermato e violentato dalla polizia, scatta rapidamente la trappola. Anzi due.
Prima trappola: le uscite autostradali talvolta sono a sinistra. Questo elemento è fortemente destabilizzante in quanto obbliga ad attraversare rapidamente tutte le corsie per portarsi a sinistra ed uscire a tutta velocità dall’autostrada.
Seconda trappola: spesso la corsia di destra, o le due corsie di destra, diventano uscite obbligatorie. Tu sei sempre lì tranquillo che vai pian pianino sulla destra cercando di non farti sparare dalla polizia (che ovviamente è in agguato e non aspetta altro), quando all’improvviso compare il cartello “Rigth lane MUST exit”, prontamente seguito dalla linea bianca tratteggiata che diventa continua, mentre ovviamente alla tua sinistra continuano tutti ad andare appiccicati alla stessa velocità. Alcune volte la potenza del motore delle auto americane ti trae d’impaccio, altre volte no e non ti resta che aspettare che il navigatore faccia il suo dovere.
Il corollario di queste due trappole, che ricordiamolo sono frequenti a Miami ma le potreste trovare ovunque nel continente, è che in America è normale superare a destra.
Una volta fatto il callo a questi due problemi, il che significa tendenzialmente circolare sempre nella corsia di mezzo, la guida negli States diventa piacevole e tranquilla. Si apprezzano i limiti bassi (massimo 110/120 kmh) ed il rispetto degli stessi da parte degli automobilisti.
L’altro appunto su Miami è relativo alle case. Ci rendiamo subito conto che sono fatte prevalentemente di cartapesta. Cartone al massimo, legno giusto se il proprietario è un politico o una star del cinema. Il vantaggio è che costano poco, abbiamo visto pubblicità di villette a 99.000,00 dollari ed i giardini con la vegetazione tropicale sono meravigliosi, accattivanti da farti venir voglia di comprare. In effetti mi risulta che molti italiani abbiano comprato la mitica casa a Miami!
Gli svantaggi sono che vanno a fuoco, spesso devono impacchettarle per disinfestare gli insetti, e soprattutto non hanno la minima tenuta termica, il che nel mite inverno tropicale non è un problema, ma d’estate significa finestre sigillate, aria condizionata perennemente accesa e centrali nucleari che pompano elettricità. Nella casetta dove abbiamo soggiornato a Miami, realmente abitata da veri americani c’era un cartello che ci ammoniva di non aprire MAI la finestra della stanza perché sarebbero entrati gli insetti e sarebbe uscita la frescura del condizionatore. Anche al bagno c’era un cartello, diceva sempre di non aprire la finestra, persino dopo la doccia, perché tanto l’umidità si sarebbe dispersa all’interno della casa. O gli piace tanto la sauna, o c’è un velo d’irrazionalità latente nell’utilizzo del condizionatore.
La mia teoria in proposito è che l’aria condizionata sia un segno di opulenza e tenerla al massimo è uno status symbol.
I poveracci muoiono di caldo, noi siamo una famiglia per bene e stiamo al fresco.
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Matteo Barni
Viaggiatore da una vita. Ho piantato la tenda sull'aspra brughiera delle Orcadi e sorseggiato mojhito sulla sabbia bianca di Bora Bora. Ho visitato il cuore rovente dell'Islanda ed attraversato gli USA da un oceano all'altro. Ho conosciuto un filosofo cubano di nome Aristoteles, e visto i Sami giocare a calcio alle tre del mattino in un'area di servizio oltre il circolo polare artico. Ho cotto gli spaghetti nel Tiergarten di berlino ed ero a Times Square la notte che Trump ha sconfitto l'america. Mi muovo a piedi in bicicletta, in treno e in automobile: ad ogni viaggio il suo mezzo. Ma meglio se leggero. Sono fermamente convinto che l'Italia sia il paese turisticamente più importante del mondo, se vissuto fuori stagione. Tuttavia amo trascorrere l'estate al fresco nel Grande Nord. Cicloturista enogastronomico dell'era Decathlon, mi considero più un cacciatore di paesaggi che un Trekker vero e proprio. Ho comunque al mio attivo un 4000 e numerose cime minori. Ho viaggiato con tre, cinque, dieci amici, alcuni dei quali scrivono in questo blog. Oggi viaggio con mia moglie che scatta fotografie e traccia la rotta col GPS, ma non rinuncio mai alla sensazione del dito che scorre su una carta geografica. Mio figlio a 6 mesi ha già raggiunto quota 2.400 e calcato alcune delle spiagge più belle del mediterraneo. Sta buono solo in viaggio. Credo che farà grandi cose.